Articolo pubblicato originariamente su Europa Quotidiano in data 29 marzo 2012.
Il vertice “storico” è un flop a metà
In Iraq il primo summit internazionale dal 1990. I sunniti stanno a casa.
Di Andrea Glioti
Da diversi mesi lo scenario politico iracheno è dominato dai preparativi del 23esimo vertice della Lega araba organizzato a Bagdad, che terminerà oggi con l’incontro dei capi di stato. Nonostante le imponenti misure di sicurezza che hanno accompagnato l’evento, alcuni colpi di mortaio sono riusciti a minacciare l’ambasciata iraniana ai margini della “zona verde” dove era in corso l’evento. Come da copione, la città “blindata” ha fatto patire soprattutto i suoi cittadini, costretti a casa senza poter comunicare, a causa di “problemi tecnici” che, secondo il ministero della difesa, avrebbero causato il blocco delle reti di telefonia mobile. Nel frattempo, appena nove leader su ventidue dei paesi membri della Lega araba hanno partecipato all’evento, sollazzandosi tra Sheraton e datteri serviti su piatti d’oro da 24 carati.
Per le autorità irachene rimane un evento storico, il primo vertice organizzato a Bagdad a ventidue anni dalla guerra del Golfo in Kuwait, cui hanno fatto seguito le sanzioni economiche e l’occupazione statunitense. Negli ultimi mesi, non a caso, il governo iracheno, guidato da Nouri al Maliki ha ricucito attentamente i rapporti con i paesi del Golfo.
Il premier sciita si è recato in Kuwait lo scorso 14 marzo per ottenere importanti promesse sulla fine delle sanzioni postbelliche; in cambio l’Iraq ha preso l’impegno a rispettare la demarcazione dei confini sancita dalle Nazioni Unite e di risarcire la Kuwait Airways per il furti commessi durante l’invasione. Il riavvicinamento si è concretizzato nella partecipazione dell’emiro del Kuwait al summit di oggi, anche se, stando a quanto riportato dall’agenzia al Sumaria News, sua altezza al Sabah avrebbe abbandonato il summit prima della conclusione.
L’Arabia Saudita, tuttora priva di un’ambasciata a Bagdad, ha ripreso le relazioni diplomatiche tramite il suo ambasciatore in Giordania. Persino il re (sunnita) del Bahrain ha presenziato all’evento, rassicurato dal divieto imposto da Maliki agli sciiti di inscenare proteste contro la repressione di cui sono vittime i suoi correligionari nel regno del Golfo. Il tutto sotto l’occhio attento degli Usa, che vedrebbero di buon occhio un allontanamento dell’Iraq dall’orbita iraniana.
D’altro canto, il peso politico delle risoluzioni adottate dal vertice è pressocché nullo: stando al comunicato che anticipa gli esiti dell’incontro (la Dichiarazione di Baghdad), la posizione della Lega araba sulla rivoluzione siriana si risolverà in un prevedibile sostegno al piano di Kofi Annan.
Ancora più gravi le ripercussioni del vetice sulla crisi interna scaturita lo scorso dicembre dal mandato d’arresto emesso nei confronti del vice presidente sunnita Tariq al Hashimi: i preparativi del summit hanno posticipato la conferenza finalizzata alla riconciliazione nazionale al 5 aprile. Iyyad ‘Allawi, il leader della coalizione al Iraqiya, di cui fa parte Hashimi, ha di fatti minacciato di internazionalizzare la crisi irachena nel corso del meeting della Lega araba, sostenendo che la frattura interna allo scenario politico iracheno andasse risolta prima del vertice.
Bisogna notare poi che mentre la Dichiarazione di Baghdad tesse l’elogio dei «cambiamenti portati dalle primavere arabe», l’Iraq rischia di precipitare verso una nuova dittatura. Il governo Maliki è infatti oggetto di critiche per il suo despotismo e la repressione sistematica delle manifestazioni popolari. Una denuncia che arriva tanto da organizzazioni come Human Rights Watch, quanto da alleati di governo sciiti come Moqtada al Sadr.